lunedì 1 febbraio 2010

Il rapimento

La spia rossa sopra l’obiettivo era accesa, la videocamera stava riprendendo: inquadrava una sedia vuota sistemata davanti al letto di una angusta e sporca camera di motel. La debole luce di una abat-jour posta sul comodino di fianco al letto matrimoniale, ancora perfettamente rifatto, si diffondeva fiocamente nella parte nord della stanza.
Passarono solo pochi secondi quando una seconda luce, più forte, investì la camera illuminando completamente il letto e la sedia. Una mano poggiò una valigetta 24h in pelle nera ed una giacca elegante, appendendola allo schienale. Nulla più si mosse e la totale assenza di rumore la faceva ora apparire completamente deserta la stanza.


Dovettero passare pochi minuti ancora prima che la telecamera fosse sollevata e allontanata dalla sua posizione almeno di 2 metri. Ora che la panoramica era più vasta si scorgeva un fagotto avvolto in un lenzuolo bianco disteso a terra vicino al letto, immobile. Proprio verso il fagotto venne rivolto l’obiettivo e grazie ad un veloce zoom fu immediatamente chiaro che questo si gonfiava e sgonfiava, anche se quasi impercettibilmente, come respirasse.
Un’ombra balenò tra la telecamera e il soggetto inquadrato, avvicinandosi ad esso senza che il microfono direzionale registrasse alcun rumore di passi. L’ombra stava ora in piedi vicino al muro e fissava il lenzuolo che, indifferente, continuava ad alimentare i suoi polmoni. Improvvisamente la figura nera tornò sui suoi passi, afferrò la telecamera, attenta a non farsi inquadrare, e la avvicinò manualmente al lenzuolo. La teneva molto vicina al volto, perché il microfono registrava ora suo il respiro ossessivo e profondo, sempre più frenetico man mano che con la mano libera scopriva un lembo del lenzuolo mostrando una forma dapprima indefinita (la vicinanza dell’obiettivo impediva una buona messa a fuoco), ma che con un movimento spontaneo verso il caldo della coperta si rivelò in tutto il suo orrore: la forma indistinta era quella di un piede.
La videocamera girò vorticosamente su se stessa, distolse il suo occhio elettronico da quel piede, piccolo e delicato, venne piazzata nuovamente sul ripiano e spenta.
Lo scenario su cui l’occhio si riaprì era aberrante: una ragazzina, giaceva nuda distesa sul letto con le mani bloccate da due manette alla spalliera. Con il volto rigato dalle lacrime, che avevano trascinato con sè il trucco nero lungo le guance, e gli occhi arrossati per la stanchezza e il pianto, la poveretta fissava la luce rossa interrogandola sul perché si trovasse legata a quel letto, mentre con la bocca, rotta sul labbro superiore e tappata da uno straccio, implorava pietà puntando alternativamente il suo sguardo terrorizzato, ora oltre l’inquadratura, ora alla videocamera.
L’apparecchio venne impugnato e avvicinato insistentemente alla prigioniera. Con il suo occhio insensibile, l’obiettivo seguiva a volo di uccello la mano tremante del carceriere che, partendo dai piedi, cominciava ad accarezzarle la delicata pelle che, forse per la prima volta, sentiva il contatto di una mano estranea. Come una tarantola, la mano incedeva con tocco leggero e, lenta, scivolava lungo le sottili gambe, nude e tremanti, si spingeva verso l’interno coscia e sostava un poco in mezzo alle gambe, non senza approfittare dell’occasione di infilarvisi qualche istante, per poi riprendere veloce il suo cammino fino all’ombelico che, in preda a violenti spasmi, saliva e scendeva a ritmo col respiro affannato e rotto dal pianto della giovane vittima. Il dito medio accarezzava in bordi di quella piccola fossetta, compiendo prima un paio di giri in senso orario e poi altri due in senso antiorario. L’attenzione della tarantola fu attirata dal piercing metallico al centro della pancia piatta che, come un oltraggioso intervento umano, deturpava irreversibilmente quello che era uno splendido paesaggio naturale incontaminato. La mano studiò la piccola pallina argentea passandosela tra pollice ed indice e cominciò a giocherellarci: inizialmente si divertiva a stuzzicarlo colpendolo ad ogni sussulto provocato dal respiro, ma il gioco gli venne presto a noia: le due dita afferrarono saldamente il gioiello come una tenaglia. La ragazza in preda al panico, lanciò un urlo appena le intenzione dell'aracnida le furono chiare, mal l'urlo venne immadiatatamente soffocato dal dolore. La mano stringeva tra le dita macchiate di sangue il piccolo gioiello argenteo. Una lacrima rigava il ventre nudo della ragazza intingendo di rosso alcuni biondi peletti pubici mentre l’indifesa ragazza urlava, più per paura che per il dolore. La mano portò il piercing ancora sanguinate di fronte all’obiettivo esibendolo come un trofeo.
Su questa macabra scena la videocamera richiuse il suo occhio e questa volta per sempre.

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