martedì 25 ottobre 2011

La cisterna


Il telefono squillò solo due volte e poi si zittì. Non avrei risposto in ogni caso. Ho ben altro da fare che ascoltare la voce monocorde di operatori sottopagati che propongono i soliti sondaggi di quartiere. Nessun altro mi chiama più, ed è meglio così. L’ultima a farlo fu mia madre: “Tuo padre è morto, sarai contento adesso”, e mise giù. Rimasi qualche istante in piedi con la cornetta poggiata all’orecchio. Avrei dovuto dirle che avrei preferito fosse toccato a lei, così la fatica di alzarmi dal tavolo da lavoro sarebbe stata ricompensata. Ma mio padre non avrebbe chiamato. 

Il pomeriggio era caldo e afoso. Persino i raggi di sole che filtravano dalle serrande scottavano sulla pelle. Feci il giro delle stanze per chiudere le tapparelle e tirare le tende. Dalla finestra della camera osservavo il bambino pedalare sulla sua bicicletta. Come un cane al guinzaglio, girava su se stesso senza superare i confini d’ombra della cisterna sul lato opposto della strada.
La cisterna era del sig. Toscani, il premio per aver passato quaranta anni sopra un camion. Da alcuni anni è in pensione. La motrice dovette restituirla, ma la cisterna se la tenne. Nessuno sa perché, e in fondo a nessuno importa davvero. I primi tempi alcuni genitori erano preoccupati per quel mostro di lamiere che dominava sul marciapiede: “Potrebbe essere pericoloso.” dicevano, “chissà cosa c’è dentro?”, ma presto si abituarono a vederla lì, immobile e imponente, bollente anche la sera. I bambini del quartiere, che prima si tenevano a debita distanza sotto le raccomandazioni dei genitori, ora la considerano un elemento naturale del quartiere, quasi ci sia sempre stata, al pari delle giostrine in ferro arrugginito piantate nel giardino arido in fondo alla strada. 
Il bambino continuava a pedalare, schiavo del suo circolo perpetuo. Ad ogni giro completo suonava il piccolo campanello come se lo aiutasse a tenere il conto. Lo abbandonai quando contai il decimo giro.
Scesi in salotto, nella penombra della casa e mi lasciai cadere nella poltrona. Era troppo caldo per rimettersi al lavoro e non mi sarebbe riuscito di concentrarmi abbastanza per continuare. Col telecomando, la plastica appiccicosa, accesi la radio, ma subito lo spensi in favore della televisione. Le immagini presero lentamente la forma di un documentario sugli animali. Un leone, ormai vecchio, dopo una penosa sconfitta fu costretto ad abdicare la guida del branco in favore del più giovane e forte. Esiliato dal branco, avrebbe dovuto ricominciare a cacciare da solo, ma non era più in grado di correre, abituato ad essere sfamato dalle femmine del branco che cacciavano per lui. Stanco, si accasciò all’ombra di una rupe e più che ruggire sembrò sbadigliare. Spensi la televisione e chiusi gli occhi. 
Dalla strada proveniva il drin drin regolare del campanello. Il bambino non era ancora stanco e nemmeno il caldo riusciva a distoglierlo dalla sua personale missione. Contai almeno altri sei giri, quando sentii la bicicletta schiantare a terra. Aprii gli occhi e feci per alzarmi. Avrà avuto un colpo di caldo, pensai. Continuare a girare intorno sotto il sole battente non era di certo una buona idea. Silenzio. Ritrovai la mia posizione appoggiandomi allo schienale, questa volta accesi la radio e richiusi gli occhi.

Il sonno durò pochi minuti. Venni svegliato dal bussare alla porta. “Signore è in casa?” domandava con voce rotta. Piangeva e bussò altre tre volte. Mi alzai dalla poltrona e andai in cucina. Spensi la lampada del tavolo da lavoro e lo coprii con il telo. Andai alla porta. Aspettai: forse se ne era andato. Invece picchiò con il palmo altre due volte. “Signore? E’ in casa, signore?”
Scostai la tendina della porta e guardai il bambino. Con un braccio si riparava gli occhi dal riflesso del sole sul vetro della porta, mentre con l’altra mano si teneva il ginocchio sbucciato. Il sangue scivolava lungo la gamba, fino ai calzini bianchi, colorandoli di rosso. 
Sfilai il chiavistello, girai la chiave di cinque mandate e aprii. Il bambino fece subito per entrare ma lo bloccai. “Cosa c’è?” domandai in tono rude, anche se non se lo meritava. “Mi scusi signore, ma sono caduto con la bicicletta” e si girò ad indicarla. La piccola Graziella era accasciata a terra vicino ad una delle grosse ruote posteriori della cisterna con il manubrio storto ed un pedale rotto. Riconobbi l’immagine del leone sdraiato sotto alla rupe che, come la bicicletta, ormai era inutile per sé e per gli altri. Tornai a fissare il bambino che, sorpreso di non ricevere il trattamento che si aspettava, si fece forza e continuò: “…e mi sono fatto male.”, indicando stavolta il ginocchio sanguinante e mostrando che anche la mano che usava per ripararsi gli occhi era tutta graffiata e sporca di cemento. “Perché non vai casa, così tua mamma ti mette un cerotto?” - “Non voglio andare dalla mamma, lei mi sgriderebbe perché mi aveva detto di non uscire fino alle quattro.” e tirò forte su con il naso. Se fosse stato in grado di sopportare il dolore, il bambino non sarebbe rientrato in casa e di certo non avrebbe cercato aiuto: quando ci si sente in colpa ci si comporta da stupidi. “Va bene, entra, ma non toccare nulla, va bene?”, il bambino annuì e varcò la soglia. Dopo qualche passo si fermò in attesa di nuove istruzioni. “Adesso siediti su quella sedia vicino al telefono e aspetta. Io vado a prendere qualcosa per pulirti e vedo se ho un cerotto.”. Il bambino non fece storie e ubbidì. Andai in cucina a cercare qualcosa per la ferita. Nella scatola delle medicine trovai una confezione di garze e un disinfettante ancora da aprire. Presi dal cassetto uno strofinaccio pulito per togliere il sangue, ma lo misi giù. Tornai in soggiorno, e lo sorpresi che osservava con apprensione il ginocchio e che aveva ripreso a piangere. “Vieni con me” gli dissi. Scese lentamente dalla sedia e mi si avvicinò. Mi guardava con occhi intensi e supplichevoli. Non mi ero accorto di quanto fossero chiari, e le lacrime che li bagnavano li facevano risplendere anche nel buio della stanza. Mi prese la mano ed ebbi un tuffo al cuore. Sentii il rossore dell’imbarazzo impadronirsi del viso e cominciai a sudare. Staccai subito la mano, mi voltai e in silenzio, ma col il cuore che batteva contro il petto, cominciai a salire i gradini che conducevano al primo piano. Lungo le scale sentivo la mancanza di quel piccolo e fugace contatto, di quel semplice e innocente toccarsi, e per un brevissimo momento desiderai ardentemente che quel contatto si riconfigurasse. Mi girai verso il bambino che mi seguiva a testa bassa,qualche gradino più indietro, mi fermai e gli poggiai una mano sulla schiena spingendolo delicatamente di fronte a me. Con le dita ascoltavo le vertebre muoversi che, delicate, sembrava che mi accarezzassero i polpastrelli ad ogni impercettibile singhiozzo.
“Come ti chiami?” mi venne spontaneo chiedergli, senza pensare che il bambino avrebbe potuto girarsi, interrompendo nuovamente il contatto. “Giacomo” rispose, continuando a salire le scale, regalandomi la possibilità di infilare l’indice sotto la canottiera bianca e di sfiorare la pelle calda e un po’ bagnata di sudore della schiena.
Arrivati in cima svoltammo a destra verso il bagno. Superammo la mia camera da letto e notai che Giacomo lanciò un’occhiata, veloce ma incuriosita, verso l’interno. L’idea che vedesse camera mia mi emozionava. Forse un giorno, se saremmo diventati amici, gliela avrei mostrata, con ogni suo segreto e nascondiglio. Gli avrei anche mostrato la mia collezione. Adesso però dovevo prendermi cura del suo ginocchio.
Lo accompagnai fino al bagno e lo feci entrare, stavolta solo con una leggera spintarella. 
“Togliti le scarpe e i calzini” gli dissi “così ti pulisco e ti passa tutto, ve bene?”. Lui annuì. Si sedette sul bordo della vasca da bagno e cominciò a slegarsi le scarpe ma poco dopo si arrese. “Mia mamma me le ha legate strette con il doppio nodo e non riesco…”. Mi chinai e mi misi in ginocchio di fronte a lui. Ora eravamo alla stessa altezza e mi guardava negli occhi. “Allora faccio io” dissi sorridendo. Comincia a sciogliere i lacci e ogni tanto alzavo lo sguardo cercando il suo, che era però concentrato sulle mie mani che si adoperavano per liberarlo dalle scarpe. Ero fiero di quello che stavo facendo, di aiutarlo. Lui mi osservava, quasi incantato e io mi impegnavo meglio che potevo. La scarpa venne via facilmente, e gli sfilai anche il calzino sporco di sangue che poggiai sul lavandino alle mie spalle. Gli disse che era meglio togliere anche l’altra scarpa così poteva entrare nella vasca e pulirsi meglio. Mentre slegavo anche il secondo nodo, ripetutamente e senza che se ne accorgesse, gli sfioravo la caviglia con il mignolo della mano. In quella posizione, così vicini, io e lui, qualcosa scattò dentro di me e sentivo un leggero rigonfiamento nel basso ventre. “Entra nella vasca adesso, così ci sciacquiamo bene.” Giacomo scavalcò il bordo della vasca ed entrò, stava in piedi, immobile e a disagio. Cercai di usare un tono amichevole e di rimediare a quello burbero di poco prima, ma nello sguardo si leggeva un po’ di apprensione: adesso bisognava intervenire sulla ferita e temeva che facesse male. “Non sentirai nulla, non preoccuparti” e così dicendo raccolsi il telefono della doccia, aprii il rubinetto e cominciai a far scorrere un po’ l’acqua fino a che fosse tiepida. “Forse è meglio se ti togli anche i pantaloncini, Giacomo, non vorrei bagnarli”. Lui pareva incerto su come comportarsi. Di sicuro richieste del genere le aveva ricevute solo da sua mamma, ma non potevo lasciarmi sfuggire quell’occasione. Sentivo che dovevo convincerlo. Volevo vederlo, stare con lui nella vasca. Volevo toccarlo e volevo che lui toccasse me. “Se fai il bravo poi ti faccio vedere la mia collezione. Sono sicuro che ti piacerebbe: a te piacciono le macchinine, non è vero?” - “Sì, mi piacciono!”, sembrava aver riacquistato un po’ di fiducia. “Allora comportati bene e fai come ti dico. Sai che ne ho più di cinquanta?” – “Davvero? Così tante ne hai?” – “Sì, ma adesso togliti i pantaloni e la canottiera, avanti!” Risposi spazientito. Convinto dalla proposta cominciò a spogliarsi. Potevo vedere le sue piccole forme in rilevo sulla stoffa gialla. Con una mano afferrai le mutandine da dietro e gliele sfilai fino alle ginocchia. Glielo toccai con il viso e glielo baciai giocosamente. Giacomo rideva, forse gli facevo il solletico con la barba. Lui cercò di coprirsi con le mani e di impedirmi di continuare. “Basta!” diceva, ma ero fuori di me e le sue parole risuonavano lontane. Mai avevo provato una sensazione del genere e sapevo come doveva finire.
Mi alzai in piedi e cominciai a sbottonarmi frenetico i pantaloni. Lo tirai fuori, duro e pulsante . Lo strinsi con la mano destra, mentre con l’altra, senza fargli male, afferrai Giacomo per i sottili capelli biondo scuri bloccandogli la testa. Questa volta toccava a me. Volevo provare anche io quel piacere per cui avevo aspettato trentasei anni e che a lui avevo permesso di scoprire così giovane. Finì tutto in pochi istanti: appena sentii il calore della sua bocca raggiunsi un potente orgasmo. Ebbi un cedimento alle gambe, mi accasciai su di lui che, come un fantoccio di pezza, si abbandonò sul fondo della vasca facendomi inciampare sul bordo. Scivolai e gli caddi addosso. Si piegò in modo scomposto e sbatté la testa contro il rubinetto della vasca.
Un rivolo di sangue gli scese dalla fronte e venne trascinato giù nel tappo dall’acqua ormai calda che piano scorreva sul fondo. 

Giacomo giaceva immobile, in posizione fetale. Sembrava dormire, ma senza i profondi e regolari respiri che accompagnano il sonno. Lo chiamai una, due volte e lo strattonai perché riprendesse i sensi, ma non rispondeva. Lo tirai fuori dalla vasca e lo distesi a terra. Vederlo lì, sul pavimento del bagno, mi procurò disgusto e mi odiai per quel gesto tanto irriconoscente. Decisi allora di portarlo in camera mia e lasciargli il letto. Tornai in bagno, raccolsi i pantaloncini, i calzini e le scarpe. Passando davanti allo specchio mi accorsi di non essermi ancora coperto e, dolente e di nuovo moscio, lo infilai nei pantaloni.
In camera lo rivestii e lo asciugai con il copriletto, macchiandolo tutto di sangue. Lo abbracciavo e accarezzavo cercando di risvegliarlo da quel terribile mutismo; speravo in un sussulto, che aprisse di nuovo gli occhi e che mi chiedesse se adesso poteva vedere le macchinine. Mi detestavo: ingrato per quel suo dono, non gli avevo nemmeno messo un cerotto al ginocchio.
Scesi al piano di sotto tenendolo in braccio, con le sue braccia che mi cingevano il collo e la testa appoggiata sulla spalla, come se si fosse appisolato. 
Facendo attenzione a non fare movimenti bruschi, scostai il lenzuolo bianco che copriva il tavolo da lavoro e, tra gli oltre cinquanta modellini di automobili dipinti a mano della mia preziosa collezione, scelsi la più bella che avevo e, di sicuro, quella che più sarebbe piaciuta a Giacomo. Gliela infilai in tasca e gli schioccai un bacio sulla fronte.

Scostai la tendina della porta e guardai fuori: la strada sembrava deserta, ma per sicurezza prima di uscire aprii piano e controllai meglio. Il caldo era davvero insopportabile. Percorsi veloce il pezzo di asfalto che separava casa mia dalla bicicletta, lasciata a bruciare al sole. Sistemai il corpicino di Giacomo sul luogo della caduta e tornai in casa. 
Ci volle ben più di un’ora perché le sirene dell’ambulanza rompessero il silenzio opprimente del quartiere. Sollevai di pochi centimetri la persiana, per riuscire ad osservare la scena senza essere visto.
Una volta che l’ambulanza e i paramedici se ne andarono, stavolta a sirene spente, portandosi via il corpo di Giacomo, nel quartiere rimanevano solo la grande cisterna, e alcune mamme che piangevano e si abbracciavano. Una di signora di mezza età, affacciata sulla porta di casa, teneva in braccio un neonato, anche lui in lacrime, e continuava ad accarezzargli i pochi capelli in modo isterico, cercando più di calmare se stessa che il bambino. Una bambina era seduta sul ciglio del marciapiede, vicino alla biciclettina di Giacomo e disegnava con un gesso bianco sull’asfalto. 

Il giorno dopo il signor Toscani fece spostare la cisterna. “Ero l’unico in casa quando il bambino è caduto, se la cisterna non fosse stata di fronte la finestra, mi sarei accorto…mi sarei accorto…” rispondeva tra le lacrime a chi gli domandava dove fosse finita.

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