giovedì 22 marzo 2012

Fata Morgana


Siede di fronte a me, qualche posto più in là, vicino al finestrino.
Regge il libro con la mano sinistra. Con il pollice separa le pagine nell’incollatura centrale, e le dita della mano destra accarezzano ogni pagina, lente e delicate; come se per leggere le bastasse toccare l'inchiostro con i polpastrelli. Sorride. La guardo e fantastico sulle sue mani, sulla sua bocca.

Sarà la monotonia del viaggio, o la noia che mi assale in quelle tre ore di paesaggi tutti uguali, a risvegliare in me certi impulsi primordiali nell’interregionale Venezia S. Lucia – Bologna Centrale. So che è strano ma è tutta una questione di atmosfera. Mi piace pensare che gli impianti di condizionamento liberino particolari fragranze afrodisiache, degli allucinogeni, che cancellano l'odore di sudore misto a dopobarba, dandomi alla testa e stimolandomi le sinapsi.
In questi ultimi due anni da pendolare mi sarò scopato mentalmente almeno novecento tra giovani universitarie, donne in carriera, madri di famiglia, hostess. In pratica una media di circa tre prestazioni al giorno con altrettante compagne.
Molte di loro mi capiti di rivederle tutt'ora: a volte le riconosco dal taglio di capelli, altre volte dalla risata, più spesso per il modo in cui tengono accavallate le gambe. Con nessuna ho mai replicato, è impossibile. Il mio è un palco che può essere calcato una volta sola nella vita, ed è ogni volta uno spettacolo unico. Fin da bambino ho desiderato fare il regista di teatro e ogni giorno ho la possibilità di cimentarmi su di una nuova messa in scena.
I preparativi durano pochissimo, giusto il tempo per scritturare la protagonista del momento. Una volta pronti si accendono i fari e lo spettacolo inizia. Se la vita non ha nulla da offrirmi, mi rifugio nella mia mente, creo il vuoto intorno a me e mi abbandono alla mia immaginazione, l'unica amante a cui ho potuto chiedere ogni cosa e che mi ha sempre assecondato. Chi ha detto che siamo fatti della stessa sostanza dei sogni aveva ragione.
Sapere di trovare un posto su cui posare il mio culo flaccido e che tutto sarebbe andato secondo i piani, senza un solo contrattempo e che, grazie alla mia naturale predisposizione mentale, sarei sempre riuscito ad attivare il processo immaginifico, è l'unica consolazione che mi è rimasta. A quarantasette anni suonati non esiste tabù che la mia mente tema di violare.
Così, ciò che è iniziato come un gioco innocente, come il pretesto per evadere da questa scatola su rotaia, ormai è diventata un'ossessione a cui non posso rinunciare. E non voglio.
Il sipario si alza nel momento in cui entro in un vagone e la scena prenda il via con io che mi guardo intorno avanzando lentamente nello stretto corridoio che separa i sedili. Trovo posto, infilo la valigetta nello scomparto in alto e mi siedo tenendo un sacchetto di biscotti in mezzo alle gambe. Sono il tipico pendolare: impacciato nei movimenti nonostante siano gli stessi da anni, totalmente anonimo. Ordinario, come la mia vita. Un nessuno qualunque. 
Me ne sto lì, seduto per conto mio, con il sacchetto di biscotti tra le mani. Non lo aprirei mai per timore che il rumore attiri su di me l'attenzione degli altri passeggeri. Non ha una funzione, rimane un mero oggetto di scena. Sto lì a fissare il finestrino, ma non guardo davvero fuori. Vago perso sul vetro, il tanto che basta per non incrociare il mio  sguardo e fare i conti con me stesso. E' a questo punto che la trama mi riserva la prima sorpresa. Evitando il mio riflesso, incontro quello di lei. Anche lei fissa il vetro, magari è sovrappensiero, oppure si è appena girata da questa parte per caso. L'incontro è fulmineo e lei imbarazzata interrompe il contatto voltandosi dall'altra parte. Io rimango immobile, faccio finta di nulla e la aspetto. Eccola che ritorna, e stavolta mi cerca. Si morde delicatamente il labbro mentre mi osserva specchiato sul finestrino. Sta a pochi sedili da me. Qualcosa in lei scatta e prende la decisione. Cosa la spinga a comportarsi così non si evince dalla trama, bensì tutto è lasciato al caso e ogni azione genera una conseguenza del tutto illogica. Si alza e si avvicina in silenzio, mentre io continuo a osservarla muoversi sul vetro, incorporea. La guardo inginocchiarmisi davanti e allungare una mano verso il sacchetto di biscotti che tengo sulle gambe. Lo afferra delicatamente e lo poggia a terra senza rumore. Mi allarga un po' le gambe e lentamente mi slaccia i pantaloni. L'occhio di bue è puntato su di noi e la luce ci investe al centro del palco creando il buio tutto intorno. Soddisfatta infila una mano sotto le mutande. Sente che la desidero e sorride. Delicatamente estrae il mio membro eretto, china la testa e lo fa scomparire nella bocca tra le labbra morbide. Cala il sipario. Applausi.
Non è una un testo molto complesso e la drammaturgia magari lascia un po' a desiderare, ma mi eccita pensare di eccitare, e a volte, se la fantasia è abbastanza intensa e l'opera ben allestita, mi capita di venire senza toccarmi. L'orgasmo non è l'obiettivo da raggiungere. Che una sconosciuta si conceda a me senza alcun tipo di inibizione è l'idea che mi perseguita dolcemente e  mi dona il massimo del piacere.
Perché tutto funzioni per il meglio è necessario un dettaglio, qualcosa da ricercare con cura e a cui attribuire importanza man mano che la fantasia si sviluppa. Come il tessitore che a pochi centimetri da un imponente arazzo sceglie quel filo in particolare e cerca di non perderlo mai di vista allontanandosi dal soggetto, io cerco il mio dettaglio. Il dettaglio è come quel filo: finirà per confondersi tra tutti gli altri fili, per tornare a mostrarsi quando il tessitore accetterà sconfortato di averlo definitivamente perduto.
Un braccialetto, un dito tra le labbra, una spalla un po' scoperta, una ciocca di capelli, uno smalto, una sciarpetta, un paio di occhiali o di guanti, l'ombelico scoperto sono i fili sui quali mi concentro e che dimentico; che abbandono e che continuamente ritornano durante la fantasia. Mi servono per addomesticarla, per fissarla nella mente. Istantanee scattate durante un percorso che si inoltra sempre più a fondo, tuffandosi e scivolando verso profondità dalle quali sarebbe impossibile risalire senza i giusti appigli...

Il fischio annuncia l'arrivo del treno e la voce registrata si premura di avvisare che il binario è quello corretto. Si aprono le porte con un violento clanc e, una volta salito a bordo, posso iniziare a interpretare la mia parte. Dopo anni di performance di successo mi sento totalmente a mio agio. Conosco perfettamente gli spazi di questo palco e potrei muovermi tra la sua scenografia anche ad occhi chiusi. Mi siedo, valigetta, biscotti. 
Il copione non è particolarmente corposo, anzi prevede solamente una battuta per di più sussurrato a fior di labbra, che nessuno può sentire: “Dove sei, mia Morgana?”. Fondamentale infatti è il ruolo che gioca il silenzio. E' il silenzio che conferisce ad ogni movimento la sua importanza avvolgendo la scena di un'aurea trascendentale che rende ogni volta lo spettacolo unico.

Dove sei, mia Morgana?

Eccola: legge, indifferente a qualunque cosa la circondi. Non distoglie lo sguardo dal suo libro. Il respiro regolare, armonico ed equilibrato, è il suo unico movimento. Può cominciare la ricerca di quel piccolo particolare.
All'inizio credo di potermi focalizzare sulle dita lunghe e sottili, e al loro dolce incedere sulla pagina. Non funziona: noncuranti persistono nella loro discesa, incapaci di compiere altri gesti persino nella mia immaginazione. Per un breve istante le vedo scivolare verso l'interno coscia, ma colte sul fatto subito tornano alla pagina e la voltano. Provo a concentrarmi sul collo candido che sbuca dal colletto alto del maglioncino, ma anche lui insospettito, come un serpente, guizza nel suo nascondiglio di lana.
Infastidito, mi sistemo meglio sul sedile e chiudo gli occhi. Penso al suo seno, a come spinge sul maglione facendo risaltare i piccoli capezzoli duri. Finora non ho mai dovuto arrivare a tanto. 
Lei è bellissima, ma in me qualcosa non va, la mia mente non si attiva. Lo spettacolo deve ancora iniziare e già è in stallo.
Cerco di figurarmela nuda: le lunghe gambe sottili che si aprono. Le mani che sensuali ne seguono i contorni, scorrono sulla pelle, sulle curve, dal collo alle cosce, e poi in mezzo. Forzo la fantasia, la  costringo ad abbozzare freneticamente immagini sconce, volgari e mortificanti, ma è tutto inutile e persino doloroso. Smetto.

Sono agitato. L'idea di non riuscirci mi sconvolge. “Com'è possibile?”. Possibile che davvero stia pensando a stupidate del genere? Deve essere la colazione abbondante di poco fa che mi sta giocando brutti scherzi. Il Dottor Cotti mi aveva avvertito di andarci piano, ma che potesse interferire su questo non me lo aspettavo. La cosa in un primo momento mi diverte, ma le mani mi ricordano che non posso ingannare me stesso e tremano visibilmente. Stringo i pungi e appoggio la testa al sedile. Non mi resta che calmarmi e ritrovare la giusta predisposizione.
Chiudo gli occhi e respiro profondamente prima di concedermi un ultimo tentativo. Quando li riapro è lei a fissarmi. Ha gli occhi spenti,  inespressivi. Mi fissa, immobile. Solo la mano scorre sulle pagine, sempre più veloce.
Ho caldo e sudo copiosamente. La camicia mi si appiccica al petto e i polsini mi stringono i polsi. Una goccia di sudore mi bagna l'occhio sinistro e mi brucia quando strizzo la palpebra. Rivolto verso il finestrino, cerco nelle tasche un fazzoletto che non trovo e mi asciugo con il palmo della mano. 
Non ce la faccio. Tutto questo deve finire. Devo solo distrarmi e lasciare che la fantasia svanisca tra gli alberi e i tralicci dell'elettricità che mi scorrono di fronte. Mi pizzico la coscia sperando che il dolore mi riporti alla realtà, ma niente: continuo a sentire i suoi occhi su di me, in attesa. Il fruscio che producevano le dita sulla pagina, prima debole e leggero, ora è così forte che mi attraversa i timpani. Gira la pagina, e ricomincia. Il suo riflesso mi scruta dal vetro opaco. Per la prima volta devo intervenire sul copione:

Chi sei?

Tossisco per schiarirmi la gola. Dalla tasca interna della giacca estraggo il cellulare e le cuffiette e faccio partire la prima canzone che trovo. Anche al musica suona distorta. Provo a concentrarmi, ma tra le note confuse, si fa largo, inesorabile, quel maledetto fruscio che sovrasta tutto e che mi costringe a sfilare gli auricolari. Arrotolo il filo delle cuffie e lo ricaccio dentro la tasca ormai madida di sudore.
Continuo a sentire quegli occhi indagatori su di me. Mi ha trovato, non c'è alcun dubbio. A lungo mi ha cercato. Sa tutto di me. Può leggermi in profondità, nella mente, nei pantaloni. Quel maledetto fruscio si fa sempre più forte. Graffia la carta con unghie affilate. É insopportabile.

Perché mi fai questo?

Il mio è solo un gioco innocente, una bambinata che faccio per passare il tempo, lo giuro. Lei rimane in silenzio. Prego perché la smetta, perché non mi tolga anche questo, ma lei non mi ascolta e si limita a fissarmi. Mi giudica. Lo so che ho sbagliato, che ho sbagliato in tutti questi anni. Si mette in piedi, lascia cadere il libro, le pagine ormai strappate, e mi viene incontro. I contorni le si fanno sempre più indistinti, quasi scomparisse a poco a poco, come un miraggio. I vestiti le si sciolgono addosso. La sua pelle è guasta e la sua nudità anemica e la sua bellezza, prima coperta, ora appare malata. Si avvicina senza smettere di  fissarmi. Mi giro verso il finestrino e non posso fare a meno di incontrare il suo sguardo anche nel riflesso. La osservo che avanza, lenta e inesorabile. Mi allunga una mano. No, non può chiedermi questo. La mia immagine riflessa gliela stringe. Io gliela stringo, ma non ha consistenza.

Ti prego, lasciami andare...

Ci voltiamo verso il finestrino e tra noi e il paesaggio non c'è nulla. Mi giro di nuovo e vedo solo l'interno del vagone, affollato. Il mio sedile è vuoto. Preferisco guardare il paesaggio. All'orizzonte vedo la sua figura e sembra chiamarmi.
Buio.

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