lunedì 12 ottobre 2009

Un sogno...

Stanotte ho fatto un sogno triste. Mi capita spesso ultimamente. Sarà per il troppo caffè, ma non riesco a rinunciare a quell’aroma amaro e deciso che mi ricorda, ad ogni breve sorso caldo, quello che non sono.
La giornata era bellissima, una di quelle giornate autunnali che non si sono dimenticate dell’estate appena trascorsa e che, con il loro cielo terso sgombro di qualunque nuvola, ancora riscaldano abbastanza da permettere ad un intero bucato di asciugarsi al sole, risparmiando una notevole fatica ad ogni brava madre o single che abbia l’iniziativa di stendere i panni la domenica.
Santino, un nome come un altro per ogni buon cristiano, ma dal primo giorno di scuola elementare profondamente odiato dal suo proprietario, trascorreva questa bella giornata seduto al computer, concentrato nel destreggiarsi abilmente al videogioco del momento. Vinceva, si divertiva, ma sentiva freddo.
Suo fratello, minore per età, ma molto più maturo e intraprendente di carattere, suonava la chitarra in camera senza troppo preoccuparsi delle note mancate e dondolando su e giù, a destra e a sinistra, la testa, seguendo il ritmo del suo spartito mentale.
E così la mattina passava velocemente per entrambi. Forse un po’ meno per la madre che, poveretta, la trascorreva tra detersivi e stracci, pulendo a fondo casa, non avendo il tempo per farlo durante il resto della settimana. Anche nel giorno in cui il Signore si prese una piccola pausa, lei lavora. Lavora duramente lei, sempre. Lavora per se stessa, per i figli e per tutta la famiglia. Fa tutto e non esagero nel dire che con tutti i suoi sforzi, lei sola regge sulle spalle l’intera famiglia, magari non economicamente, a quello ci pensa il marito, ma tutto il resto su cui questa piccola grande società si basa.
Il sogno ora sembra un attimo offuscarsi e sbiadire come un dipinto a tempere sul quale viene lentamente versata a poco a poco l’acqua di un bicchiere. Il soggetto rimane sempre lo stesso, ma la sensazione di pace che trasmetteva prima si affievolisce: le pennellate un poco si mischiano tra loro, i contorni, non più tanto netti, perdono la loro linearità e contemporaneamente la loro capacità di distinguere le forme, i colori sono ora un po’ più freddi e anche la luminosità lascia posto ad un più malinconico effetto di intorpidimento.
Ora la famiglia non sembra più così felice. Il freddo si fa sempre più strada e attacca Santino alle mani e ai piedi costringendolo ad abbandonare più volte il suo gioco per strofinarseli e scaldarseli solo per soffrirne ancora di più una volta terminato il breve trattamento. Anche Marco sente freddo alle dita e questo lo impaccia nell’esecuzione: le corde non sono più pizzicate bene come prima e l’effetto non è più così piacevole a sentirsi e, nonostante la testa perseveri nei suoi movimenti ondulatori, i lineamenti del volto che prima esprimevano armonia, ora vengono deturpati dalle strizzate d’occhi e dagli arricciamenti delle labbra ad ogni errore commesso. La madre invece è fuori in cortile a raccattare stancamente i panni stesi, che rischiano, per la troppa umidità e l’improvvisa sparizione del sole dietro a qualche nuova nuvola, di dover subire un nuovo lavaggio.
Ora siamo nella cucina, all’ora di pranzo. Il pasto è servito e, come al solito, inizierà in assenza del padrone di casa, che pranzerà un po’ più tardi dopo essere rientrato dal lavoro. In casa c’è di nuovo pace. Si mangia e si scherza con facilità quando si è solo noi tre. L’aria di complicità purifica la stanza e sostituisce la malinconia che ti assale se provi a guardare il cielo troppo bianco.
Il rumore del motore, ormai immediatamente riconoscibile, precede il suo arrivo, ma questa strana nuova sensazione si fa più pesante una volta che dalla finestra si vede arrivare la macchina che entra direttamente dal cancello, precedentemente aperto, e imboccare il vialetto di casa.
Si aspetta ancora un poco, senza sollevare le posate dal piatto e una volta che lui entra si sentono mormorare dei tenui “buongiorno”, tranne la mamma che tiene un tono leggermente più alto, e che sembra quasi troppo forte in mezzo a quel silenzio imbarazzante.
E poi succede, lui si mette a tavola e non è più come prima. Ora si ascolta per davvero la tv, ci si finge interessati o ci si interessa sul serio. Le pietanze preparate non sono più buone come prima, ora servono solo a riempire lo stomaco. Le posate improvvisamente hanno smesso di far rumore, non si appoggiano nemmeno più, sfiorano il tavolo e infilzano delicatamente il cibo. Nemmeno i bicchieri si riempiono più fino all’orlo, ci si limita a versare quel tanto di acqua, anche solo un goccio, che ti serve per toglierti la sete, nonostante il palato rimanga asciutto.
E finiscono così il pranzo, la cena, tutti i pasti di tutti i giorni. Ci si alza da tavola e si va a lavarsi i denti, senza preoccuparsi se c’è chi ancora deve finire. Una volta alzati dalla sedia si è finalmente liberi e basta solo aspettare che anche lui finisca, perché una volta finito, si alzerà e si andrà a chiudere nel salotto o in camera per i fatti suoi, e allora si potrà ricreare nuovamente l’atmosfera andata perduta per quei 20 minuti, e che durerà tra noi tre nonostante le immancabili sue incursioni in cui ci intima di abbassare il tono della voce, o di ridere più piano, perché non riesce a seguire la tv e se ne andrà sbattendo tutte le porte che lo separano da noi…ma in fondo questo ci allieta.

E’ così che il sogno finisce.
Decido che posso finalmente alzarmi dal letto su cui ho passato disteso tutto il pomeriggio cercando di distrarmi e pensando ad altro per non sentire loro che parlavano a voce troppo alta, perché la cosa potesse sembrare solamente quotidiana. Devo essermi addormentato…
Vado in cucina e trovo la mamma che piange, “se ne è andato!”, mi dice, “ora siamo solo noi tre…!”.
Io mi volto, un sorriso si allarga sulla mie labbra.
“Spero che questo non sia un sogno”, ripeto tra me.

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