giovedì 17 marzo 2011

Un sogno (o Incubus)


Faccio fatica ad addormentarmi. Mi capita spesso ultimamente. Sarà per il troppo caffè, ma non riesco a rinunciare a quell’aroma amaro e deciso che mi ricorda ad ogni sorso, quello che non sono.

La giornata è bellissima, carica di un’atmosfera autunnale che non si è dimenticata dell’estate appena trascorsa e che, con il suo cielo terso, ancora riscalda abbastanza da permettere ad un intero bucato di asciugarsi al sole o di abbronzarsi mentre una piacevole brezza accarezza le pagine di un libro.
Santino, un nome come un altro ma che rivendica un’appartenenza cristiana, odia il proprio nome dal primo giorno di scuola, quando la maestra gli chiese di recitare una preghiera davanti ai compagni di classe prima di iniziare la lezione di religione. “Chi meglio di un Santino, può ringraziare il Signore per il cibo che ci dona?”

Mi giro e rigiro nel letto, sento un po’ di freddo alle gambe. Provo a scaldarmi con le mani i piedi e sento che sono congelati, quasi mi fanno male le dita per quanto le tengo strette. Mi chiudo a uovo. So che stare ben disteso mi permetterebbe di scaldarmi più in fretta perché favorisce la circolazione, ma non ci riesco.

Santino trascorreva una così bella giornata spezzando la lettura dell’ultimo numero di Superman con l’ascolto di una canzone alla radio e qualche occhiata lanciata dalla finestra. Ha sempre avuto difficoltà di concentrazione e la lettura gli risulta essere un’attività fin troppo faticosa per essere portata avanti più di 5-6 minuti consecutivamente. Sapere poi che Superman è indistruttibile e che certamente avrebbe sconfitto anche questa volta la sua celebre nemesi, Alexander Joseph Luthor, più noto come Lex, gli consentiva di staccarsi da quella pagine colorate ancora più facilmente, senza sentirsi in colpa.

Che ore sono? Perché è così difficile addormentarsi? Il sudore ha completamente inzuppato le lenzuola e le coperte e mi sembra che al freddo si siano aggiunti degli spifferi di aria che arrivano dal fondo del letto. Devo stare immobile. Ad ogni movimento una lingua fredda sembra leccarmi schiena e gambe. Come faccio a vedere che ore sono?

Suo fratello, minore per età, ma molto più maturo e intraprendente di carattere, suonava la chitarra in camera senza troppo preoccuparsi delle note mancate e dondolando la testa su e giù, a destra e a sinistra, seguendo il ritmo dettato dal suo spartito mentale. Un giorno avrebbe sfondato, ma per ora si limitava a suonare nel piccolo coro della chiesa.
Così la mattina passava velocemente per entrambi. Forse un po’ meno per la madre che, poveretta, la trascorreva tra detersivi e stracci, pulendo a fondo casa, perché non c'era il tempo per farlo durante il resto della settimana. Anche nel giorno in cui il Signore si prese una piccola pausa, lei lavorava. Lavora duramente, sempre. Con tutti i suoi sforzi, lei sola regge sulle spalle l’intero carico familiare, magari non economicamente, a quello ci pensa il marito, ma tutto il resto su cui questa piccola grande società si fonda ricade su di lei.

Credo di avere la febbre, anzi ne sono certo, ma non voglio chiedere aiuto. Se lo facessi di sicuro dovrei usare il termometro, e scoprire che di febbre non ce n’è traccia mi ucciderebbe. Preferisco sopportare il male nel silenzio della mia camera e combattere questa guerra da solo, sempre che la guerra ci sia. Provo a girarmi per guardare l’ora (non lo avevo ancora fatto), ma nel voltarmi mi sembra di sprofondare, di precipitare nel vuoto. La mia testa è vuota. La mia stanza è vuota. Il mio letto è vuoto. Io sono vuoto.

Il tempo sembra offuscarsi per un attimo e sbiadire come un dipinto a tempere sul quale viene versata a poco a poco l’acqua di un bicchiere. Il soggetto rimane sempre lo stesso, ma la sensazione di pace che trasmetteva prima si affievolisce: le pennellate si mischiano tra loro; i contorni, prima netti, perdono la loro linearità e il loro tratto che permetteva di distinguere le forme; i colori si fanno più freddi, e la luminosità lascia posto ad un malinconico effetto di intorpidimento.
Il freddo si fa strada tra le poche stanze della casa e attacca Santino costringendolo ad abbandonare la posizione da disteso. Incrociare le gambe per strofinarsi e scaldarsi mani e piedi e riprendere la lettura del suo Superman che per la prima volta appare davvero in difficoltà.

Non ricordo dove sono. Non riconosco la stanza. Sembra capovolta. Dove sono? Le pareti mi girano intorno, o sono io a vorticare al loro interno. Non capisco. Il freddo è insopportabile.

Anche Marco comincia a sentire freddo alle dita e l’esecuzione alla chitarra si fa sempre più impacciata: non pizzica più le corde correttamente e le stonature che produce danno fastidio. Il suono prima pulito è adesso quasi distorto e, nonostante la testa perseveri nei suoi movimenti ondulatori, i lineamenti del volto che prima esprimevano armonia, ora vengono deturpati dalle strizzate d’occhi e dagli arricciamenti delle labbra per ogni errore commesso.
La madre è corsa fuori in cortile a raccattare stancamente i panni stesi che rischiano, a causa del repentino annuvolamento e dell’alzarsi di un vento forte, di staccarsi dagli stendini e di venire trascinati a terra dalle continue sferzate del vento.

Aiuto…sto male…aiuto…perché nessuno mi sente?

E’ mezzogiorno. Il pasto è servito e, come al solito, il pranzo inizierà in assenza del padrone di casa, che pranzerà un po’ più tardi una volta rientrato dal lavoro. In casa c’è pace. Si mangia e si scherza con facilità quando si è solo in tre. L’aria di complicità purifica la stanza e sostituisce la malinconia che l’autunno conduce con sé.
Il rumore del motore precede il suo arrivo, ma è solo quando si sentono le chiavi girare nella serratura del portoncino che qualcosa in Santino cambia. Dentro di lui tutto si fa immobile, freddo e lucido come vetro.
Si aspetta senza sollevare le posate dal piatto e una volta varcata la soglia si sentono dei “buongiorno” quasi sussurrati, tranne quelli della madre che, con un tono leggermente più alto, rimbomba in mezzo a quel silenzio imbarazzante.
Lui si mette a tavola e non è più come prima: ora la tv la si ascolta per davvero, ci si finge interessati o ci si interessa sul serio. Le pietanze preparate non sono più buone come prima, ora servono solo a riempire lo stomaco. Le posate improvvisamente hanno smesso di far rumore, non si appoggiano nemmeno più, sfiorano il tavolo e infilzano delicatamente il cibo. Nemmeno i bicchieri si riempiono più fino all’orlo, si versa sola quel tanto di acqua, anche solo un goccio, che serve a togliere la sete. Ogni movimento è meccanico, ogni parola è superflua.
Si concludono così i pasti di tutti i giorni. Ci si alza da tavola e si va a lavarsi i denti senza preoccuparsi se c’è chi ancora deve finire di mangiare. Una volta alzati dalla sedia si è finalmente liberi. Basterà aspettare che se ne vada di nuovo perché tutto ritorni come prima.

… … …

Santino si sveglia molto presto. Qualcosa lo disturba. Decide di alzarsi e andare al bagno. Sono le 5 di mattina, se si sbriga in bagno avrà ancora un paio di ore di sonno prima che la sveglia suoni. Si muove veloce verso il gabinetto, ma attraversando il corridoio dell’entrata scorge sua madre seduta sul bordo del letto, il viso nascosto tra le mani.
“Mamma, che c’è? S-Stai piangendo?” – balbetta Santino.
La madre alza il volto. Gli occhi rossi e lucidi.
“Se ne è andato!” – dice – “ora siamo solo noi tre…”
Santino si volta e torna a passi lenti verso il letto. Un sorriso si allarga sulle sue labbra.
“Spero che non sia un sogno” – ripete tra sé.

La luce del sole mi brucia negli occhi. Tenerli chiusi non serve più nulla, mia madre è entrata in camera per la seconda volta e stavolta ha tirato su le persiane e spalancato la finestra.
“Ancora a letto sei? Dai che tuo padre ti sta già aspettando in macchina!”
“Mamma, mi sento la febbre…”
“Sicuro?”
“Sì…”
“Allora rimettiti a dormire.”
“Grazie…”

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